MASSIMO CAPONNETTO

La Cultura della Legalità

Massimo Caponnetto, ospite Le Esperidi dal 2005. Socio e dirigente dell’Olympus Club di Firenze, società sportiva senza scopo di lucro. Figlio di Antonino Caponnetto, magistrato che insieme a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Gioacchino Natoli, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta costituì quel “pool antimafia” destinato a istruire il più complesso processo mai intentato alla mafia, il cosiddetto maxiprocesso.

Dal 1987 Massimo è socio fondatore e presidente della società sportiva Olympus Club, situata a Firenze in via di Ripoli, in una meravigliosa villa affrescata. Ingranditasi nel corso degli anni, attualmente la struttura ospita un’area fitness attrezzata ed un’area per i pesi; una piscina coperta; sei sale corsi; un termario con sauna, bagno turco, docce emozionali e zona relax; un centro estetico; bar-ristorante; un’oasi esterna immersa nel verde con piscina e solarium; campi multisportivi ed un centro di medicina per lo sport. Tutto il Club è dedicato al benessere della persona ed alla ricerca di un equilibrio tra corpo e mente. Questo ideale ha permesso all’azienda di svilupparsi creando una comunità di persone unite dalla passione per lo sport.

“Le Esperidi è la nostra casa al mare: una casa all’interno di una pineta con il mare a due passi.”

“Ogni anno troviamo qualche novità, qualche miglioramento. Questo ha per noi un grande valore, significa che i nostri consigli, le nostre richieste vengono ascoltati. Talvolta ci stupiamo di come i nostri desideri vengano addirittura anticipati.”

Sono ben 17 anni che vieni con la tua famiglia in vacanza a Le Esperidi, cosa ti fa amare questo luogo?

Ho sempre amato il mare. Trascorrevo le mie vacanze di bambino e ragazzo a Lido di Camaiore, in una casa di mio nonno, nella zona del Secco. Dopo tante estati dedicate ai viaggi, nel 2005 sono venuto a Le Esperidi con mia moglie Gianna per far visita a mia sorella ed ai suoi bambini. L’anno dopo ci siamo tornati assieme a dei nostri amici e ci siamo trovati molto bene, e così di anno in anno, tanto che Le Esperidi è diventata la nostra “casa al mare”: una casa all’interno di una pineta con il mare a due passi. Prima ci venivamo con nostro figlio Daniele ed adesso ci veniamo con i nostri due nipotini, Luna e Martino. Sono talmente desiderosi di partire per il campeggio che già nel mese di marzo iniziano ad osservare i tigli davanti la loro casa, perché sanno che, non appena metteranno le prime foglie, sarà arrivato il momento di andare alle “Epperidi” ed al “lago bellissimo”, come dicono loro.

In questi anni ci sono stati tanti cambiamenti all’interno del campeggio, come li hai vissuti?

Abbiamo visto Le Esperidi crescere e, anno dopo anno, trasformarsi in un grande villaggio vacanze, ricco di offerte e servizi, ma sempre con grande attenzione alla cortesia ed al rispetto. Anche i nostri nipotini, che hanno 5 e 3 anni, lo considerano già casa loro, con il lago, la baby dance, il mare, la mascotte Pinolino e la pizza mangiata la sera sulla spiaggia. Ogni anno troviamo con grande piacere qualche novità, qualche miglioramento. Questo ha per noi un grande valore, significa che i nostri consigli, le nostre richieste vengono ascoltati. Talvolta ci stupiamo di come i nostri desideri vengano addirittura anticipati.

Tu che ami lo sport e dirigi un centro sportivo a Firenze, ci racconti come è nata questa passione? Hai qualche consiglio da dare per quanto riguarda lo sport a Le Esperidi?

Credo di aver ereditato questa passione dalla mamma che, sebbene sia nata nel 1922 (compirà 100 anni fra due mesi), in un periodo in cui certo non era consueto che le donne praticassero uno sport, ha sempre avuto passione per tutto ciò che è movimento, dal nuoto, allo sci, a grandi girate in bicicletta. Certamente sarebbe stata d’incanto qui a Le Esperidi. Il babbo invece preferiva luoghi più appartati, amava la lettura e la musica classica. Malgrado le differenze, erano una coppia molto unita. Su di loro mi è piaciuto scrivere un libro, che uscirà nelle prossime settimane e racconta il loro amore, dal primo incontro alle vicende di Palermo, un amore tenero, ma segnato fin dall’inizio da scelte difficili, complesse.

Per quanto riguarda lo sport a Le Esperidi, mi permetto di dare un consiglio ad Umberto: nel nostro centro sportivo abbiamo alcuni campi da padel e vedo che è uno sport che piace molto. É accessibile a tutti, diverte e aggrega; inoltre non richiede grandi spazi. Penso che sarebbe gradito anche ai clienti del camping village.

Tuo papà Antonino Caponnetto fece domanda per andare a Palermo per ricoprire il ruolo che fu di Rocco Chinnici, ucciso dalla mafia. Cosa puoi dirci di quel momento?

Ricordo bene il momento in cui il babbo fece la sua domanda per andare a Palermo, a dirigere l’Ufficio Istruzione, dopo il tragico assassinio di Rocco Chinnici. Io avevo 26 anni e un figlio appena nato: la mamma e noi figli lo scoprimmo dalla televisione. Per la nomina erano rimaste in gioco solo la candidatura del babbo e quella di un magistrato palermitano, all’epoca Presidente del Tribunale dei minori. Il babbo non ci aveva detto niente della domanda, convinto che nella scelta avrebbero prevalso criteri di anzianità, come sempre, e lui ne aveva meno di altri candidati. Il Consiglio Superiore della Magistratura, in quell’occasione, volle invece premiare altri titoli, altri meriti. Babbo andò a Palermo con emozione, con la preoccupazione, inevitabile, di non essere all’altezza del compito.

Ti va di condividere con noi qualche ricordo di quegli anni?

Babbo trovò a Palermo giudici preparati, motivati. Insieme costituirono quel “Pool Antimafia” destinato a istruire il più complesso processo alla mafia mai intentato, “il Maxiprocesso”. Grazie alla collaborazione dei primi pentiti, spinti a confessare dalla guerra interna scatenata dai corleonesi, riuscirono a portare in un’aula di tribunale (l’aula bunker) 460 imputati, fra cui la “cupola” mafiosa al completo ed ottennero 346 condanne e 2665 anni di reclusione. La conferma di questa sentenza da parte della Corte di Cassazione scatenò poi la stagione delle stragi che costò la vita a Falcone, Borsellino, agli uomini e donne delle scorte e che proseguì fino alla strage dei Georgofili, l’anno successivo.

Antonino Caponnetto ha scelto di lavorare accanto a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ha sempre dichiarato di sentirseli vicini, anche dopo la loro tragica scomparsa. Com’è cambiata la tua vita, quella della mamma e dei tuoi fratelli in relazione a questi avvenimenti?

Proprio dopo le stragi la vita del babbo, che era già tornato a Firenze in pensione, cambiò profondamente, più ancora che negli anni palermitani. Gli venne ripristinata la scorta e iniziò a girare l’Italia, soprattutto le scuole, per parlare di quella esperienza palermitana, di Paolo Borsellino e di Giovanni Falcone. Il parlarne sembrava lenire in lui un po’ del dolore di quelle perdite e voleva essere un mezzo per farne conoscere la straordinarietà, le immense qualità. Anche la vita di noi figli, per certi aspetti, cambiò. Il babbo calamitò su di sé, per la sua storia, per il dolore e la voglia di riscossa che seppe manifestare in quella tragica estate del ’92, l’affetto che tutta Italia provava per Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Da allora, quando le persone scoprono che siamo i figli di Antonino Caponnetto, vediamo nei loro occhi apparire un velo di commozione, di gratitudine e di affetto per il babbo e sembra quasi che vogliano fargli arrivare questo loro sentimento attraverso di noi.

Hai tenuto spesso conferenze su mafia e giustizia; pensi che siano cambiate le cose rispetto a 30 anni fa?

Devo dire che, anche grazie all’emozione che il sacrificio di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone ha provocato negli italiani, la percezione che abbiamo della mafia è molto diversa rispetto a quella degli anni ’80. Fino ad allora ne era persino messa in dubbio l’esistenza. Ma anche la mafia è cambiata, come sappiamo bene. Gli omicidi di tipo mafioso, gli atti di violenza, pur restando un inevitabile elemento di controllo del territorio, diminuiscono costantemente, mentre aumentano i delitti connessi alla gestione illecita dell’imprenditoria, le infiltrazioni nei settori produttivi e l’accaparramento dei fondi pubblici. Nella crisi energetica che viviamo, la mafia fa affari con l’Est europeo, importando prodotti energetici come gas e petrolio a un prezzo più basso di quello di mercato. E adesso le criptovalute rendono più difficile il tracciamento del denaro circolante, che era un punto di forza delle indagini ai tempi del pool.

Cosa ha spinto tuo padre a voler intraprendere ed accettare un ruolo così rischioso per sé stesso e per i suoi cari, un ruolo che sicuramente avrebbe limitato la libertà di tutti voi, che avrebbe cambiato le abitudini e il modo di vivere la vostra quotidianità anche nelle piccole cose?

Un ruolo importante l’ha avuto senz’altro la sua sicilianità, il suo sentirsi così legato alla terra dei suoi genitori, al luogo dove è nato. Noi figli eravamo ormai grandi e, dopo l’uccisione di Chinnici, ha sentito il dovere di fare qualcosa. Il suo è stato un proporsi, un dire “se c’è bisogno, io ci sono”. Lo ha deciso in tre giorni, passati a riflettere in silenzio, senza parlarne neppure con noi. La Sicilia gli è sembrata, in quei giorni, ormai lontana dalla sua vita e questo, paradossalmente, lo ha spinto ancora di più a fare la domanda. Sicuramente più volte ha pensato di lasciar perdere, ma poi ogni volta si è detto che non doveva e non poteva tirarsi indietro. Era un uomo che dava un peso alle sue parole, alle sue azioni e che voleva sempre sentirsi in pace con la sua coscienza e con i suoi ideali. La sua scelta non ci sorprese e neppure ci stupì la sua capacità sul lavoro. Conoscevamo la sua dedizione e le sue qualità. Ci ha stupito di più la sua capacità di inserirsi e farsi voler bene in quell’ambiente notoriamente chiuso che era allora il Palazzo di Giustizia di Palermo.

Voi come vi siete posti di fronte a questa sua scelta? Lo avete appoggiato sempre e comunque oppure è stata una decisione che ha fatto emergere delle differenti vedute e posizioni all’interno del vostro nucleo familiare?

Per la mamma è stato più difficile. Restava sola, con l’angoscia di saperlo esposto al pericolo. Il giorno in cui è partito per Palermo, il suo dolore, la sua amarezza per quella scelta non condivisa, si sono sciolti. Ha capito, nella tenerezza di quel saluto, le ragioni del babbo, il suo offrirsi a una necessità del Paese, il suo voler restare fedele ai suoi ideali di giustizia. Noi figli non abbiamo mai pensato di essere in pericolo. La famiglia non era mai stato un obiettivo della mafia, allora. Un giorno però la mamma trovò sul cancello del giardino di casa sua una testa di agnello. Era con mio figlio Daniele; per non spaventarlo, gli disse che c’era un lupo in quella zona che mangiava gli agnelli e ne lasciava la testa sulla strada. Mio figlio lo raccontò all’asilo e, quando lo andai a prendere, tutti i bambini mi chiesero del lupo, quanto era grande, di che colore era, quanti agnelli aveva già mangiato e come mai ne sputava sempre la testa. La mamma lo raccontò al babbo solo quando tornò da Palermo, dopo anni. La preoccupazione per il babbo era forte; lui ci tranquillizzava, raccontandoci di quanto fosse protetto e delle tante precauzioni che la sua scorta prendeva. Ha vissuto per anni in una caserma, limitando al massimo le uscite e questo è senz’altro servito a proteggerlo.

Che significato ha per te e la tua famiglia tornare a Palermo?

La mia famiglia ha ancora molti amici a Palermo. Purtroppo il tempo ha portato via con sé alcuni fra i più cari, come Rita Borsellino e suo marito Renato. Mio padre è nato a Caltanissetta nel 1920 ed è morto a Firenze nel 2002. A Caltanissetta, poco prima della pandemia, gli hanno dedicato una piazza proprio davanti alla casa dove è nato e ha vissuto qualche anno, prima di trasferirsi con la famiglia a Pistoia, dove poi ha conosciuto la mamma e noi figli siamo nati. L’inaugurazione della piazza è stata l’occasione per conoscere la città e per vedere, ancora una volta, quanto affetto e riconoscenza i siciliani nutrano tuttora per il babbo. E questo è sicuramente dovuto, oltre che al suo carattere gentile e affettuoso, anche se rigoroso, al suo essere stato dedito alla causa comune più che alle proprie ambizioni e all’aver saputo valorizzare chi aveva intorno, riconoscendone i meriti, amandone le qualità umane e professionali, senza volerne soffocare il talento, come purtroppo successe dopo di lui. L’armonia che regnava in quegli anni nell’Ufficio Istruzione è stata all’origine di quei successi giudiziari ed è il ricordo più caro che portava con sé. Le ultime parole che mi disse durante l’ultima nostra passeggiata furono: ” Sai qual è la cosa più importante? Fare in modo che chi ti sta vicino possa esprimere sempre il meglio di sé stesso. E questo vale sul lavoro, in famiglia, con gli amici. Ricordatelo”.

S.A.

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